esser-ci \ la scherma
Pinocch-io. Una favola amorale di Marco Selvatico
«Il libro “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi si può leggere in tanti modi. Intanto, è un libro pedagogico che segue la moda dei tempi, che voleva per i bambini ‘favole morali’; però vi spira un’aria strana, un po’ anarchica, un po’ arrabbiata, che ne consente anche il ribaltamento. Secondo me è un capolavoro».
Luigi Comencini
Roberta Nicolai nell’introduzione al catalogo/mappa TDV18 scrive che una festa c’è stata, poi aggiunge: «La festa è stata bellissima e ognuno è stato tutti». Dunque a che tipo di festa abbiamo preso parte?
A una festa dove ogni partecipante si è sentito parte di un tutto, ricondotto a casa, al proprio io. Questo soprattutto grazie a Pinocch-io di Lucia Guarino, che, in qualità di creatrice e performer, ha donato letteralmente tutta se stessa.
È nella stasi apparente che inizia il lavoro, una immobilità vibrante. Pochi segni. Accenni sul corpo. Un lento conoscersi. Segni che dicono: “Eccomi qui, io ci sono. Ma ci sono davvero?”
Un corpo nel bianco, fragile, quasi sconsolato, che rimane silenzioso, come silenziosa è la sala.
Una linea verticale che cerca. Che cerca cosa? Io. Cerca io. Pinocch-io.
È una biografia in atto, d’altronde, quella a cui assistiamo: «Un inabissamento nel nostro intimo», come scrive Lucia Guarino nel foglio di sala.
In proscenio, vari oggetti verranno utilizzati nella performance: dei vestiti, un quaderno, una corda, una palla arancione. Accanto alla performer, un bastone rosso, lungo e appuntito. È il naso di Pinocchio. Ma non è solo un naso; è anche un cannocchiale dal quale vedere il mondo, uno scettro magico degno del più potente fra i maghi, e anche un semplice ciocco di legno da catasta.
Pinocchio. Figura archetipica a cui molti artisti si rivolgono quando sentono la necessità di confrontarsi con se stessi. Carmelo Bene, che di certo avrebbe qualcosa da dire su Pinocchio, scriveva: «È tutta la vita che tolgo di scena il burattino, l’incubo di un pezzo di legno che ci si ostina a voler farcire con carne marcia. Precipitare nell’umano, che cosa schifosa!» Eppure, non c’è nulla di schifoso nel precipitare nell’umanità della Guarino, che lentamente, prendendosi la responsabilità di esserci, si inabissa dentro se stessa per scoprire e scoprirsi nelle sue infinite e temibili possibilità.
Anche mostruose, come quando la performer indossa sulle palpebre degli occhi finti che sembrano bottoni, occhi posticci sempre aperti sul vuoto. La musica sale, la performer/pinocchio inizia a muoversi, a danzare al ritmo di percussioni crescenti, a tratti militaresche, che però lei assorbe, facendole vibrare con una sensibilità che non sa di guerra, ma di nudo disarmo. Dopo il mostro, arriva la bambina che forse impara, forse sbaglia. Muove i primi passi nella danza, fa scherma con un nemico immaginario, fino a riacquistare densità, fino a centrarsi. E complici anche le luci di Gianni Staropoli giocate in retroproiezione fra il bianco, il giallo e l’azzurro vediamo attraverso il vetro della figura disegnata dalla Guarino, dentro di lei, al centro, dove ci sono crepe, ferite e ricordi. La ricerca si ferma nell’immobilità, in quella stasi da cui tutto era partito. Ma forse, proprio in quel fermarsi, la ricerca trova finalmente il suo scopo: l’essenza dell’individuo non risiede nel movimento febbrile, né nella lotta per un’identità precostituita, ma nella quiete che segue la tempesta. Un silenzio che è assunzione di sé, un ritorno a casa. La festa è finita, ma ciò che resta è il cuore pulsante del viaggio che tutti noi facciamo.
Secondo me è un piccolo capolavoro.