Dall’intervista di Letizia Bernazza La “Rinascita” della Compagnia Bartolini/Baronio e il “canto dell’essere” di Forugh Farrokhzād 15/12/2024 liminateatri
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Quale è il filo conduttore che lega nel vostro lavoro Forugh Farrokhzād e Sara Ghorbanian Matlub, anche quest’ultima una donna iraniana, conosciuta nel 2023 nel corso del laboratorio di teatro comunitario con rifugiati e richiedenti asilo di Asinitas giunto all’esito scenico de La voce umana?
Nel 2023 nell’esperienza indimenticabile con Asinitas, in quel laboratorio di teatro comunitario che ci ha condotti a La voce umana, c’erano due donne iraniane, Sara e Zara. Ricordo ancora quando il primo giorno di laboratorio abbiamo chiesto ai partecipanti: «cosa c’è dentro la tua voce?» e Sara ha risposto «c’è la voce del mio popolo». Non lo dimenticheremo mai. Da allora Sara e Zara ci hanno accompagnato nel loro mondo di bambine, nate nel clima post rivoluzione, cresciute durante la guerra, diventate donne in un contesto di parole vietate, di veli, di violenze e di ingiustizie, ma ci hanno anche invitato a guardare la bellezza e l’eleganza di un mondo fatto di poesia, di fiori e di melograni, di libri e di gentilezza, di danze, lotte e canti, di arte e di una cultura antica di cui è intrisa ogni cosa. Nelle prime prove, mentre costruivamo la drammaturgia del nostro nuovo lavoro, Sara ci racconta proprio il suo incontro con le poesie di Forugh, ci rivela che leggerla le ha dato il coraggio di vivere davvero, di pronunciare le parole vietate, di cercare la propria libertà. E poi ci interroga e si interroga su cosa significhi sentirsi senza casa, lontana dalla sua lingua, dalla sua terra, del dolore profondo che si porta dentro e anche di come l’incontro con il teatro – e dunque con la poesia – a volte ti può salvare la vita.
UNA RINASCITA. Appunti su Forugh Farrokhzād è, dunque, una storia che contiene storie o, forse, la Storia che riverbera nelle crepe di un racconto dove si incrociano i destini di chi non ha più “voce”, “casa”, “libertà”, i tre capisaldi dei vostri Esercizi sull’abitare e Dove tutto è stato preso, Josefine, La voce umana?
Le storie che stiamo raccogliendo sono testimonianza della memoria e delle sue trame, del suo desiderio trasformativo e generativo, che è un esercizio di restituzione del rimosso, il desiderio di dare parole alla notte che c’è dentro ogni persona per tornare ad illuminare gli angoli del mondo da abitare. L’intreccio con la storia e con la lingua di Farrokhzād sulla scena è la ricerca del corpo come casa – e dunque anche delle sue parole – come dimora interiore di una lotta di resistenza attraverso l’arte che si traduce nei versi rivoluzionari di Forugh, anticipatrice delle battaglie di libertà in Iran. La questione del corpo e della libertà, ispirata ai versi di Forugh, diventa la possibilità per noi di fare un nuovo percorso che non è altro che proseguire il viaggio dei lavori che hai citato, un viaggio interiore anche, per cercare la voce di un abitare profondo dentro se stessi e come parte attiva della società: “Mi sono incamminata da sola. / Come una bambina che si perde in una foresta. / Mi sono diretta in ogni direzione / per fissare ogni cosa e lasciare che tutto mi catturasse, / finché non sono arrivata a una sorgente / in cui ritrovare non solo me stessa ma anche tutte le esperienze della foresta.” È da qui che partiamo per provare a farci delle domande, a farle alla comunità che il teatro crea. Se sentirsi a casa significa essere liberi, cosa accade quando non siamo liberi? Di cosa parlano i nostri corpi se non sono più a casa, se il corpo stesso diventa una prigione (Prigioniera è la prima raccolta della poetessa uscita a metà degli Anni Cinquanta)? Il nostro corpo è casa, ma se il corpo viene dis-abitato dalla violenza di imposizioni familiari, culturali, religiose, economiche e politiche, come ri-abitarlo, come liberarlo? A partire da queste domande, cerchiamo il corpo e le parole di chi si sente in una costante forma di esilio, un Atopos senza luogo, senza casa e dunque senza corpo, né qui né lì, in quel giardino della terra raccontato da Forugh. È dentro tale intreccio di storie nella Storia che il nostro teatro viene alla luce e quando Forugh rievoca il suo documentario La casa è nera, girato nell’ospedale di lebbrosi a Bababaghi nel 1963, per noi sta parlando anche del senso profondo del perché continuiamo a fare teatro: «Questa è la descrizione di una società chiusa e rigida», scrive, «l’immagine del vivere invano, da emarginati, come scarti. Anche le cosiddette persone sane in una società apparentemente sana al di fuori del lebbrosario possono soffrire degli stessi sintomi, nascosti nelle profondità del loro animo».
Non parlo di un brusio atterrito nel buio / parlo del giorno e delle finestre aperte / e dell’aria fresca / e delle cose inutili da ardere nel fuoco / e della terra feconda di una nuova semina, / della nascita, dell’eterno, dell’orgoglio. Nel vostro lavoro c’è la stessa speranza cui anela nei suoi versi con una forza fervida, quasi impaziente, Forugh Farrokhzād?
«Il teatro è come un filo a cui mi aggrappo perché mi sta salvando la vita» ci ha detto Sara alla fine del laboratorio con Asinitas. A volte anche noi lo sentiamo un po’ così. Non ne possiamo fare a meno come la topolina di Kafka, come la nostra Josefine che ci ha invitato ad uscire fuori dal teatro per ritrovarlo nell’incontro con il mondo, per continuare a “cantare” e chiederci cos’è la libertà. Vogliamo fare teatro, nonostante le tante contraddizioni e i numerosi impedimenti. Sentiamo fortemente il senso di condivisione del teatro; crediamo nella possibilità di tornare ad essere una comunità; ci piace raccontare le storie, reinventarle, farle rinascere, a proposito di Una Rinascita. Per farlo, per sentire che il teatro è necessario, che ha ancora un senso, adesso più che mai, sentiamo che bisogna provare a cucire il filo tra le pratiche sociali e quelle artistiche. Quando accade sentiamo che accade anche il teatro. Cerchiamo di fare spazio nello spazio – proprio come recita il titolo della tesi di laurea che Lisa Lippi Pagliai (la giovane attrice che ha partecipato al progetto insieme a Sara) – ha dedicato al nostro lavoro: Un teatro che fa spazio. Lisa l’abbiamo coinvolta per la sua bravura e sensibilità, per la sua dedizione, perché cercavamo un altro filo da tessere che avesse delle risonanze con le domande che ci stiamo ponendo e con Forugh. Lisa porta quel filo, un altro pezzo di storia che riguarda un’altra generazione, un altro corpo di donna, altri condizionamenti culturali, economici, sociali, un’altra storia di ricerca di libertà, ma anche un’altra storia di radici e di case che non ci sono più, e tutto questo diventa un filo da intrecciare con Sara e con noi. Geografie e tempi diversi stretti nella stessa condizione di spaesamento, del non sentirsi a casa da nessuna parte. La forza della scena è ancora la possibilità dell’umano e dell’incontro