Forse la vita
è una lunga via attraversata ogni giorno da una donna con
una cesta in mano
forse la vita
è una corda con cui un uomo si appende dal ramo di un
albero
forse la vita è una bambina che torna da scuola.
Forse la vita è l’accendersi una sigaretta nella pausa
languida fra due amplessi
o lo sguardo perso di un passante
che solleva il cappello
e dice “Buongiorno” con un sorriso vuoto a un altro
passante.
(…)
Pianterò le mie mani in giardino
crescerò rigogliosa, lo so, lo so, lo so,
e le rondini deporranno le uova
nelle pieghe delle mie dita sporche di inchiostro.
Incollerò alle mie unghie due petali di dalia
e appenderò ai miei lobi due rossi orecchini
di due rosse ciliegie gemelle.
(…)
il viaggio di una sagoma lungo la linea del tempo,
fecondare con una sagoma la sterile linea del tempo,
la sagoma conscia di un’immagine
che poi ritorna da una festa nello specchio.
Ed è così che
c’è chi muore
e c’è chi resta.
Forugh Farrokhzād, Una rinascita
(Traduzione Domenico Ingenito da “Io parlo dai confini della notte” ed.Bompiani)
Dall’intervista di Letizia Bernazza La “Rinascita” della Compagnia Bartolini/Baronio e il “canto dell’essere” di Forugh Farrokhzād 15/12/2024 liminateatri
«(…) Io sono della stirpe degli alberi. /Mi turba respirare l’aria infetta.
/ Un uccello morto mi consigliò di non dimenticare il volo./ Fine di
ogni impeto/ è giungere alla luminosa essenza del sole/ e immergersi
nella sapienza della luce. / È naturale/ che i mulini a vento
marciscano. / Perché dovrei fermarmi? / Mi stringo al petto le spighe
acerbe del grano/ e le allatto. / La voce, solo la voce, / la voce del
limpido desiderio dell’acqua di scorrere, / la voce del flusso della luce
stellare/ sulla superficie femminea della terra, / la voce che
concepisce il senso/ e spande il pensiero condiviso dell’amore. / La
voce, la voce, / è solo la voce che resta».
Forugh Farrokhzād, È solo la voce che resta
…
Nella “cornice concettuale” di Oscillazioni, una delle sezioni in cui anche quest’anno si declina parte del fitto programma di Teatri di Vetro, Tamara Bartolini e Michele Baronio ci conducono alla scoperta di Forugh Farrokhzād (Teheran, 1934 – Bagheri Kamasaei, Teheran, 1967) figura iconica della letteratura persiana moderna. Fluttuano, oscillano gli “appunti” dei due artisti proprio com’è nella filosofia (la chiarisce molto bene Roberta Nicolai nel catalogo del Festival) di Oscillazioni, lasciandosi «(…) muovere dalla parte che manca». Tamara e Michele si mettono all’ascolto dei versi della poetessa, attraversano la sua scrittura intrisa di rara sensibilità, ricca di immagini potenti e intrecciano la sua voce con le tante tessere-frammento che compongono il mosaico dei loro spettacoli, reading, laboratori. In questa Rinascita, il grido di libertà lanciato da Forugh Farrokhzād contro violenze e soprusi (non soltanto nell’Iran di ieri e di oggi) è anche una feritoia di speranza attraverso cui riconciliarsi con il mondo, nonostante tutto. Allora, «Ecco» – per dirlo con le parole di Roberta Nicolai – che «l’oscillazione continua a muoversi. Sulle superfici e negli abissi la sua attuale possibilità d’azione».
Confrontarsi con l’opera di Forugh Farrokhzād vuol dire entrare in un universo complesso, nel “canto di un essere” dove ciò che conta è l’univocità della persona, sia essa donna o uomo, calata nel flusso incessante della vita. Lo sottolinea con precisione Maria Grazia Calandrone nella sua prefazione alla raccolta Tutto il mio essere è un canto che scrive: «Farrokhzād torna alla coscienza primordiale collettiva e ai suoi archetipi simbolici e mitologici, toccando le vette di un lirismo visionario, onirico che rintraccia il sovrasensibile nelle radici dell’esperienza sensibile». Che cosa ha significato per voi “incontrare” Forugh Farrokhzād?
L’incontro con una parola poetica che arriva fino a noi e oltre, che non ha paura di dire la ferita del mondo ma anche la sua luce, che ci scuote fin nelle viscere e che ci ricongiunge alla terra, alla casa mondo che è dentro e fuori di noi. È anche l’incontro con il coraggio e l’urgenza, con il desiderio di libertà che c’è in ogni essere umano e che non può essere fermato, che resta come solo la voce resta, così come scrive Forugh.
L’incontro con una vita che si fa tutt’uno con la poesia, con l’arte, con il tradurre il mondo in tutte le forme che esplodono dentro di noi. Ancora, significa l’incontro con la sua poesia che tutto include in una onestà sconcertante che raggiunge vette di comprensione dell’umano che ci commuovono e che risuona profondamente nella ricerca che da anni portiamo avanti. Grazie all’incontro con la poesia di Forugh, continuiamo a cercare a partire dalle parole che hanno abitato le nostre produzioni artistiche in questi anni: “casa”, “libertà”, “voce”. A cui aggiungiamo la parola “spaesamento”, condizione universale che tutte e tutti abitiamo, oggi più che mai e di cui anche Forugh parla nelle sue poesie. Forugh ha superato i confini della lingua, parla dell’umano, anche il teatro. Noi non potevamo che incontrarla per continuare a cercare in questo percorso che ci vedrà impegnati fino al 2026.
Il percorso, drammaturgico e attoriale, della Compagnia Bartolini/Baronio è guidato da sempre da alcuni temi che ritornano e che costituiscono una sorta di Stella Polare la cui costellazione è disseminata di parole-chiave-luminose necessarie a orientare gli spettatori e le spettatrici al nucleo, al cuore, della messinscena. La “poetessa del peccato” – così era stata apostrofata Forugh Farrokhzād dopo essersi ribellata alle convenzioni sociali-religiose che avrebbero voluto relegarla unicamente nell’ambiente domestico, reprimendo la sua vocazione letteraria – quanto ci dice sul nostro mondo e sui nostri tempi, sulla libertà e sull’autodeterminazione?
Ci dice tanto, ci dice più di quanto possiamo immaginare. Da una parte per quello che ha significato nel suo Iran, per il segno profondo che ha lasciato nella cultura del suo Paese e per il contributo che ha dato al processo di autodeterminazione di tante donne – tra cui anche a Sara, la donna iraniana che è coinvolta nel nostro progetto – e per aver collaborato alla presa di coscienza anche di tanti uomini. Forugh è stata forse tra le prime donne ad alzare la voce, a risvegliare la coscienza contro un mondo patriarcale misogino e maschilista che la voleva comunque inferiore e sottomessa anche nella cerchia di intellettuali di cui faceva parte. Lei ha sicuramente aperto una strada. E ancora oggi ci dice tutto quello che ancora c’è da fare e che in ogni parte del mondo i movimenti transfemministi ed ecofemminismi stanno portando avanti. La lotta contro il patriarcato è anche la nostra, è qui, nell’educazione delle giovani donne e di tutta la società, è in ogni azione che abbracciamo nelle nostre vite personali, nei posti di lavoro, nell’arte. Forugh ci tiene sveglie, ci aiuta a ritrovare la luce come ci ha raccontato una delle persone intervistate in questi giorni. Quando Forugh scrive: «Il mio intero essere è un versetto oscuro / che nel ripeterti al suo interno ti condurrà all’alba di eterne crescite e fioriture. / Io ti sospiro in questo verso, ah / in questo verso ti unisco all’albero, / ti unisco all’acqua, ti unisco al fuoco», ci guida nella costruzione di un nuovo viaggio e ci racconta di come la sua vita troppo breve sia diventata metafora di una condizione universale, di una testimonianza di resistenza attraverso l’arte, di un pensiero che anticipa tante delle questioni legate al corpo – non solo delle donne – e ad una nuova ecologia delle relazioni umane e del dialogo con la natura: c’è un uccello in gabbia (come lei si definisce) che cerca disperatamente una casa senza sbarre, un corpo finalmente libero: «Avrei voluto nascere in una foresta», dichiara, «e accoppiarmi con la natura».
UNA RINASCITA. Appunti su Forugh Farrokhzād è il vostro primo studio intorno alla vita e agli scritti della poetessa ed è la tappa iniziale del progetto più complesso Io parlo dai confini della notte. Il titolo riprende l’omonima antologia curata da Domenico Ingenito per i tipi di Bompiani. Per voi che cosa vuol dire “rinascita” e che cosa “parlare dai confini della notte”?
Non si nasce una sola volta. Abbiamo la possibilità di rinascere ancora e ancora, di non rimanere chiusi dentro identità costruite da altri o anche da noi stessi per condizionamenti culturali o sociali che sono radicati dentro di noi. L’identità non è statica, si muove e si trasforma, ci piace pensarla così. Non è e non deve essere una gabbia. Quante cadute e quante possibilità di trovare nuove forme di vita che ci assomigliano, che ci parlano di quello che siamo diventati o di quello che sentiamo dentro.

ph@Manuela Giusto dallo spettacolo “Passi”
Nello spettacolo PASSI parlavamo proprio di questo, dei passi dopo la caduta, della possibilità di una seconda nascita e lo facevamo da una notte oscura: nera era la scena, onirico era il mondo che evocavamo. A volte è proprio da quel confine buio, da quella crepa, da quella ferita che inizia la lingua del teatro. Nel laboratorio con Asinitas, dove abbiamo incontrato Sara e Zara e tante altre persone belle e indimenticabili, ma anche nelle altre esperienze fatte in questi anni, con le ragazze e i ragazzi di Ostia; con gli adolescenti di Matemù; nei laboratori Biografie/Ritratti a carrozzerie n.o.t., ci sembra sempre di ri-nascere. Aveva ragione Luca Lotano quando al nostro primo incontro del viaggio su La voce umana ci disse: «la cosa più importante che potrà accadere tra di noi alla fine di questo percorso sarà di uscirne trasformati» È accaduto. Siamo nati ancora una volta. Si torna indietro per andare avanti, come nel finale del nostro Dove tutto è stato preso in cui tornavamo indietro a cercare le parole della nascita, quelle senza più nessuna forma, solo suono, «le parole che ci salveranno tutte e tutti», dicevamo.

ph@Carolina Farina dallo spettacolo “La voce umana”
Dentro il suono di quella voce che non ricordavamo più di avere, da quel confine, si torna per trovarsi, per ritrovarsi anche, e per potersi salutare. È dentro quell’oscurità a cui Forugh dà corpo nelle sue poesie che possiamo guardare la luce, da quella notte che tanto ci fa pensare a Yalda, la notte più lunga dell’anno che in Iran si festeggia non per la sua oscurità ma per la luce che porta con sé. Da quella notte in cui ci guidano le stelle, cantava una canzone di resistenza, da cui si rinasce per salutare ancora il sole. Così si esprime Forugh: «saluterò la terra, il suo desiderio ardente/ di ripetermi e riempire di semi verdi / il suo ventre infiammato, / sì, la saluterò / la saluterò di nuovo. / Arrivo, arrivo, arrivo, / con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra, / e i miei occhi, l’esperienza densa del buio. / Con gli arbusti che recisi nei boschi oltre il muro. / Arrivo, arrivo, arrivo, / e la soglia trabocca d’amore / mentre aspetto quelli che amano / e la ragazza che è ancora lì, / nella soglia traboccante d’amore, io / la saluterò di nuovo». Ci teniamo a dire che Teatri di Vetro, con la direzione artistica di Roberta Nicolai, ospita i primi materiali, i primi appunti, i primi semi, i passi incerti ma pieni di fervore di questo nuovo viaggio. È nello spirito del Festival accogliere e dare fiducia anche a progetti che devono ancora nascere e/o rinascere, creature che si sono appena affacciate alla vita. E anche Roberta Nicolai così ci invita a guardare la scena dai confini della notte, da quel luogo di mezzo, da quella frontiera, da quell’ombra che viene alla luce, da quella caduta dentro la vita che è l’arte del teatro e di chi lo fa.
Dall’articolo di Paolo Ruffini Oscillazioni tra gesto e archivio 26/12/2024 liminateatri
Altrettanto pregno di memoria, come una ferita che solo la poesia (vera) sa dare, il lavoro della compagine Bartolini-Baronio si concentra per contro sulla vita della poetessa iraniana Forugh Farrokhzād, ma è ancora uno spazio-laboratorio di lettura, parti musicali e archivi personali (oltreché di materiali che sono usati come frammenti del corpo), un ritratto che il duo fa a una voce libera. Toccante in quel suo procedere memoriale, documento visivo e riflesso in scena (uno spazio di lavoro al centro del palcoscenico) dove le due protagoniste sembrano ricucire la vita “eversiva” della poetessa iraniana (e autrice di un documentario su una comunità di lebbrosi) scomparsa giovanissima nel 1967. Una nascita è un non-spettacolo, un incipit di debordante bellezza, una scomposizione del tempo su una figura-emblema capace di riportare quello stesso fragore biografico anche nel teatro.
La nostra casa è molto lontana
Dietro montagne pazienti
Dietro i campi dorati
Dietro deserti vuoti
La nostra casa è dall’altra parte dell’acqua
Dall’altra parte delle onde inquiete
Dietro foreste di cipressi
È in un sogno, in una fantasia
Dietro l’oceano blu
Dietro i giardini di pere
Dall’altra parte di giardini d’uva
Dietro gli alveari
La nostra casa è dietro le nuvole
Dall’altro lato della nostra cupezza
Alla fine di strade bagnate
Dietro la pioggia, dietro il mare
La nostra casa ha storie
Ha amarene e pistacchi
Dietro le sue calde risate
Ha persone stanche
La nostra casa ha felicità
Ha pesci nelle sue piscine
Ha palle da gioco nei suoi vicoli
Ha gatti carini
La nostra casa, calda e accogliente
Vecchie foto sulle pareti
Un dipinto di giochi sul balcone
In riva al mare d’estate
L’immagine di quel giorno sotto la pioggia
Con un pianto singhiozzato e un pacco
Separandosi da persone belle e gentili
La nostra casa è molto lontana
Dietro montagne pazienti
Dietro campi dorati
Dietro deserti vuoti
La nostra casa è dall’altra parte dell’acqua
Dall’altra parte delle onde inquiete
Dietro foreste di cipressi
È in un sogno, in una fantasia