TRICKSTER E IL PRIMATE ANTROPOCENICO
di Erica Bravini
Il debutto di Trickster di Operabianco (Marta Bichisao e Vincenzo Schino) squarcia la prima serata di Oscillazioni/TdV e lascia il pubblico nell’entusiasmo. Forse per la sua particolare focale sul fatto corporeo e solo successivamente sul fatto coreografico, linguaggio della scrittura scenica che qui serve a svolgere una pellicola affastellata di citazioni dal cinema, dal web, dai social. Il nodo centrale dell’azione è una scena del film The Playhouse del 1921, in cui Buster Keaton imita una scimmia che a sua volta imita l’essere umano; fuma il sigaro, mangia con la forchetta, beve il vino, guida la bicicletta ecc. E’ il cortocircuito in atto che ispira probabilmente le mosse per un assolo, il primo a firma della compagnia, in cui attraverso il singolo esplodono moltitudini, si innescano interferenze e caleidoscopici rimandi.
Lo spettacolo inizia già da fuori: approcciando la Sala B del Teatro India, un suono di batteria energico e spezzato invita all’entrata il pubblico sovrabbondante. Il brano è “The Anxious Battle for Sanity di Antonio Sanchez dalla colonna sonora di Birdman, film del 2014 di Alejandro González Iñárritu, pluripremiata pellicola che racconta un attore alla ricerca disperata di emancipazione dal ruolo che l’ha reso celebre, il supereroe Birdman. La metamorfosi, tra umano e animale, si annuncia da questa prima citazione sonora e subito si materializza nel corpo del performer che troviamo già in azione. Riconosciamo subito il tono scimmiesco della caratterizzazione fisica, una timbrica continuamente interrotta al livello di partitura eppure estremamente centrata nel tenersi sul filo di un’incorporazione ardita.
Luca Piomponi, il performer e danzatore, giovanissimo e perfettamente all’altezza di un così delicato compito, è in abiti sportivi all’inizio, sembra un ragazzino impertinente e sbruffone nelle sue esplosioni cinetiche o nei suoi sguardi ambigui, intensissimi, diretti a noi astanti (la luce in sala, per quanto discreta, sarà accesa per quasi tutto lo spettacolo). Il trucco che lo maschera è quello di una scimmia, bianca e rossa, la stessa figurazione che Operabianco aveva sperimentato in un lavoro del 2011 Sonno. E’ chiaro che il gruppo approfondisce ed insiste sulle stesse questioni, tornando anche sui propri passi, rimescolando e riscrivendo pezzi di teatro da loro stessi già messi in scena (come in Time is out of joint presentato ad Oscillazioni l’anno scorso). L’urgenza sembra essere la stessa e la potenza visiva che manifesta il loro modo di fare teatro è una cifra linguistica ed estetica, laddove un approccio alla coreografia simile, di tipo cinematografico, non unicamente nel cosa ma soprattutto nel come, si presenta nel panorama italiano come un caso raro e sicuramente interessante da seguire.
Il montaggio è quindi la modalità che Operabianco sceglie per mettere insieme le fonti visive raccolte e quindi per riscriverle attraverso la danza. Il montaggio è la penna, il tratto, il disegno, mentre il corpo è ciò attraverso cui esso si anima. La partitura coreografica, complessissima, non certo solo per virtuosismi acrobatici, che anche sono strabilianti, ma in modo più raffinato essa si legge nella trama “montata” di un’azione fisica che tiene insieme materiali frammentati e parziali, sempre riferiti ad un altrove di cui non disponiamo sottotitoli.
L’immagine in movimento, pur sempre bidimensionale, prende qui corpo e presenza, nella sua articolazione mutevole di salti spaziotemporali. E anche se non disponiamo di note e riferimenti in tempo reale a didascalia delle varie scene che accadono inafferrabili, l’eloquenza della corporeità messa a partitura, sempre a fuoco, sempre “parola” anche se silenziosa, ci esplode davanti in tutta la sua onestà.
Colpisce quindi incredibilmente la commovente messa a servizio nella scrittura coreografica del performer che diventa altro, medium, il trickster/imbroglione appunto, che si lascia continuamente sconquassare e fragilizzare dalle immagini che lo attraversano. Commovente nella disponibilità per niente egocentrata del suo stare in scena, del suo presentarsi come strumento perfettamente accordato alle esigenze del racconto.
Saranno d’accordo, probabilmente, Marta e Vincenzo con lo psicologo Albert Mehrabian che nella comunicazione tra individui riscontra un 93% di comunicazione corporea, tra movimento e voce, e solo un 7% di comunicazione verbale riferita al valore semantico delle parole. Trickster, a mio avviso, si inserisce nel discorso sul linguaggio corporeo in maniera cristallina e altrettanto generatrice di mistero (che cos’è il corpo-che-danza se non quello spazio vitale e inafferrabile che custodisce un mistero). Attraverso espedienti scenici e visivi ad alto impatto e grazie ad una sofisticata concezione della drammaturgia fisica, l’”oggetto scenico” dichiara il proprio posizionamento nel teatro come messa in pratica di una teoria della percezione, una visione carnale che straborda l’umano.