immagine di Pinocchio \ il naso
“Eccomi qui. Qui sono, ci sono. Per grazia vera. Mi dico che forse non ci sono, ma io ci sono e mi muovo, mi muovo contro, mi muovo dentro. Equilibrista del limite, difronte a me l’eclisse di questo tempo. Eccomi. Sono una storia vera, un sogno eterno, un desiderio, un’assenza, una tensione, un corpo irrequieto, un pezzo di legno, un animale immaginato, un artificio, un cuore che batte, una fuga, una luce accecante, un buio abissale, una vita.”
Condivido il primissimo testo che scrissi per PINOCCH-IO; pensieri che all’oggi lasciano breve traccia del mio desiderio di immersione nell’ “io” attraverso la figura di Pinocchio. Una macro domanda di fronte al mistero del corpo – dei corpi come presenza e intensità del “tutto” e come concreta trasformazione – paesaggio in emersione – tra luce e buio. Una riflessione sull’affiorare della danza come scintilla vitale tra pensiero e movimento.
Il mio sguardo si è posato sulla figura archetipica di Pinocchio, su quel corpo-legno immaginato, sospeso, al limite nel suo continuo e ostinato tentativo di liberare la sua vera natura. Il mio corpo si è legato alla “figura-io” in un atto di presenza specchiandosi in quello sterminato desiderio di Pinocchio di farsi carne e sguardo.
Se la mia ricerca durante gli anni ha sempre posto l’attenzione al macro-concetto di vuoto, inteso come “lo spazio infinitesimale tra le cose” e declinato nel tempo attraverso differenti immaginari, con PINOCCH-IO quello spazio infinito e liminale si ribalta verso l’interno in un inabissamento nel vuoto intimo, motore vitale che genera impulsi di possibilità, regressioni, tensioni, metamorfosi, ribellioni, affermazioni … vita.
Lucia Guarino
da Teatroecritica/Cordelia PINOCCH-IO di Lucia Medri
Uno spazio metafisico accoglie l’esile figura della danzatrice Lucia Guarino. Tutto intorno è bianco, e in questa rarefazione, una lunga asta color rosso acceso viene alzata come fosse una grande spada a fendere questo candore: si tratta invece di un naso, anzi il naso di Pinocch-io, ultimo e intimo lavoro dell’artista. Attorno a questo «figur-io», vivo di potenza e per questo delicato e fragile, si articola una dedica dell’io al sé – essenziale, come è il linguaggio coreografico di Guarino – ma poetica e incisiva che sembra affiorare, dando loro corporeità e concretezza, dai quadri di De Chirico, tanto nei colori usati per gli abiti, che nell’uso e nella collocazione degli oggetti. Un’indagine, che è anche un duello di scherma a cui alludono i costumi, sulla propria natura che parte dalla menzogna – prima di qualsiasi altra azione, la danzatrice indossa simbolicamente il lungo naso – per arrivare alla verità del corpo in un percorso enigmatico, malinconico, a tratti inquietante in cui la burattina biomeccanica si sfida a diventare se stessa. Ancora in definizione, le luci tenui di Gianni Staropoli aiutano a dipingere una dimensione sospesa, compromessa nella sua fissità, in cui Guarino sembra nascere e muoversi come fenomeno, accadimento etereo e fugace. Un essere dai cuori di carta inchiodati al petto, che possono essere presi e sfogliati uno dopo l’altro, lentamente, con decisione; tante stille rossastre appartenenti a un’intera vita. In quel corpo che si fa piccolo piccolo e poi si estende, salta, corre, o semplicemente sta, si manifesta l’essere, la sua nascita, infanzia, adolescenza e adultità, mentre nel qui e ora teatrale si rappresenta “l’esser-ci”. Io, tempo e spazio sono le tre unità sceniche attorno alle quali si muove questa coreografia di ricerca, sono vettori di sensibilità attraverso i quali possiamo dire di noi. Oppure mentire.