DA TRICKSTER, VIAGGIO CORPOREO NELLA CITAZIONE. IL NUOVO DEBUTTO DI OPERA BIANCO
by Carlo Lei
L’intervista a Vincenzo Schino e Marta Bichisao in occasione del festival Teatri di Vetro
[…] Marta Bichisao: In “Trickster”, il grande lavoro è stato cercare di aderire il più possibile alla fonte senza corromperla e, contemporaneamente, organizzare i frammenti e tessere le commessure, astraendole dal loro contesto narrativo originario. Ho cercato le soluzioni più efficaci per inventare connessioni tra frammenti diversissimi: nuovi percorsi muscolari, tendinei, cinetici, energetici e spaziali per articolare il materiale in una sintassi ritmicamente esatta. Venendo al corpo, al mio prima di tutto, ho l’impressione che insistere nei materiali riciclati (di qualunque natura, compreso il repertorio) sia essenziale per continuare a rendere empirico il nostro lavoro di danzatrici e danzatori. Ogni epoca storica e ogni luogo geografico hanno culture corporee prevalenti, e recuperare citazioni dal passato o da un altrove per me significa operare sul corpo uno scollamento dall’ordinario, obbligarsi a cercare dove il nostro confort non andrebbe, scoprire estetiche, connessioni articolari e muscolari slegate dalla moda o dal modo con cui di solito affrontiamo l’arte del movimento. La direzione è andare sempre più a fondo della conoscenza del movimento e rendere ancora più sottile la relazione con la commozione dello spettatore. Verso uno stato pre-logico e pre-individuale, forse anche pre-corporeo. La figura che abbiamo desiderato esplorare (e che poi ha trovato una pace nell’occupare la dimensione del Trickster) è un creatore di linguaggi nella misura in cui non inventa ma riarticola, separa volontariamente per trovare poi modi di riconnettere. Il titolo del lavoro è successivo rispetto alla messa in moto della macchina di ricerca, anzi potremmo dire che è giunto in una fase avanzata.
A sentire il vostro racconto delle fasi di lavoro, pare che l’individuazione di questa figura simbolica, che è una declinazione del clown, dello zanni, del fool, abbia funzionato da orientamento definitivo di tutto il materiale messo insieme fino a quel punto. Com’è riuscito un titolo, e una figura da esso evocata, a operare da enzima? Quale segreto risiede in quell’archetipo?
Vincenzo Schino: Ci ha fatto riscoprire il teatro. Il lavoro tecnico sulle 74 citazioni iniziali, poi diventate 43, è stato molto complesso. Il lavoro fisico di Luca è stato faticoso e millimetrico, e ci siamo dovuti concentrare moltissimo sulla danza, sul corpo e sulle meccaniche sia fisiche che spaziali, sempre poi in relazione ai tentativi di montaggio, che erano via via differenti e rimettevano tutto in gioco. La difficoltà era talmente alta che alla fine delle prove, soprattutto quelle aperte a pochi invitati, avevamo una sensazione di gabbia. Anche la natura delle reference delle scimmie su cui abbiamo lavorato restituiva spesso uno stato di cattività. Era esattamente l’opposto del motore iniziale del progetto, ed è stata una grande questione da affrontare. Poi mi sono reso conto che costruire una gabbia era stato l’unico punto di partenza possibile per lavorare sulla libertà. Il Trickster ha rotto la gabbia. Conoscevo già quella parola per le mie ricerche sul clown, ma rileggerne la definizione durante questa creazione è stato illuminante, subito mi sono procurato il saggio “Trickster makes the world” di Lewis Hide. Il Trickster ha alimentato, precisato e potenziato dei nuclei di lavoro che avevamo introdotto ma che non riuscivamo a sviluppare. Il clown e Keaton non erano più sufficienti, era necessario lavorare su qualcosa di originario e spirituale. Il Trickster è un archetipo talmente potente che ha connesso e fatto procedere tutta una serie di questioni, linee attorali, di “presenza” che stavano cercando di trovare una manifestazione precisa in Luca Piomponi. Trickster ha abitato Luca, è stato il suo duende. Ha condensato, tracciando una costellazione, tutti gli elementi sperimentati fino ad allora: lo stato psicofisico di Luca sulla scena: colui che connette mondi. Le caratteristiche del Trickster hanno coinciso con le regole che abbiamo dato alla performatività di Luca, e nel farlo le hanno precisate.
Marta Bichisao: Trickster nasce da una visione molto intima di Vincenzo. Nel momento in cui lui lo ha consegnato a Operabianco, il lavoro artigianale è stato un continuo palleggio tra noi, tra la via dell’immagine e la via della coreografia. Nel processo sono stati importanti i dialoghi con un terzo punto di vista, Roberta Nicolai e Sara Baranzoni, che hanno aggiunto un vertice alla complessità drammaturgica. Anche il Trickster è stato un terzo polo che, nell’innestare un pensiero magico, ha legittimato il nostro gioco compositivo, ha affinato le regole del gioco, senza diventare un contenuto narrativo di riferimento.
Con quella leggerezza che solo l’esattezza millimetrica riesce a raggiungere, “Trickster” colpisce il segno di un corpo come “possibile puro” aperto a essere animato da gestualità preesistenti (la formula è emersa durante il talk tra la compagnia e la studiosa Sara Baranzoni, a margine della prima), ma anche di uno specifico ibrido attivo, una sorta di “anello mancante”, non in senso evoluzionistico, tra un umano e una forma altra. Il vostro individuo sulla scena ruba e incorpora, cioè si costruisce altro da sé, attraverso il furto di posture, di sequenze di movimenti: non è ancora qualcosa, ma in questo “stare per essere”, in questo costruirsi esiste, per quanto in transito. E in tutto ciò, riesce a fare a meno di reclamare un’individualità, è al di qua dal sentirne bisogno. Ditecelo voi: chi è quel meraviglioso essere che ha il corpo di Luca Piomponi? Come raccontarlo a chi non lo ha visto?
Vincenzo Schino e Marta Bichisao: La ricerca di quello stato puro e di quella relazione con il pubblico è il fuoco intorno a cui è nata Operabianco. Noi due ci siamo conosciuti 20 anni fa all’interno di Teatro Valdoca, e a loro dobbiamo molto. Abbiamo riconosciuto prima come performer la ricerca di un preciso stato di presenza che loro chiamano il destino dell’attore: una postura attiva, quasi atletica e insieme abbandonata che si fa medium, nel loro caso anche delle parole di Mariangela [Gualtieri, ndr]. Per Operabianco è stato (e continua ad essere) centrale la metafora del vuoto. Negli anni abbiamo raccolto e inventato tutta una serie di esercizi che allestiscono nel performer la condizione del fare vuoto: diventare veicoli di qualcos’altro da se stessi, qualcosa che appartiene a tutte le persone presenti che condividono l’esperienza. Ogni performer poi deve trovare un percorso autonomo per intercettare quella precisione ginnica e interiore insieme. Ci viene in mente il titolo di un libro letto molti anni fa che abbiamo quasi consumato “Negli occhi delle bestie” di Fernando Marchiori: senza riferirci all’animale direttamente, bestia è quell’altro sguardo in cui riesci a vedere l’indicibile.