Roberta – È un frammento generativo. Prima dell’inizio di uno spettacolo c’è una zona di zona di indeterminatezza. Tutto è possibile. Al tempo stesso all’orizzonte si aprono delle impossibilità. Ma comunque c’è un indeterminato. Questo sguardo è generativo di tutto quello che segue al di là dell’articolazione del testo di Vyrypaev, ma è proprio la questione che il vostro allestimento pone. In qualche modo qui si rompe la quarta parete. Ma chi la rompe? Gli spettatori che sono stati fatti sedere dalla parte sbagliata hanno rotto loro la quarta parete? Quello sguardo è un’azione o è una reazione al fatto che noi spettatori siamo stati fatti sedere dalla parte sbagliata? In questo frammento il testo non c’è, per questo dico al di là del testo, c’è solo la scelta di mettere la questione in questi termini, cioè di uscire dall’indeterminatezza del prima dello spettacolo e di determinarne una traiettoria che è una scelta registica. Vedo loro che guardano, immagino o so che sono due gruppi di persone che si guardano, uno più numeroso, uno fatto solo di due persone e però non capisco chi dei due ha innescato.
Gianni – è vero, è assodato, è rotta. Ma chi è stato? Mi piace questa domanda. Vyrypaev è anche regista e nella sua messa in scena il pubblico si siede in platea come al solito. Sul palco invece è ricostruita una finta platea in cui operano gli attori. Il nostro segno, l’inversione dei posti, ha come conseguenza naturale la rottura della quarta parete, ma la direzione dello sguardo che varca quel limite si adagia sulla traiettoria della visione canonica: dalla platea al palco. Dunque sembra uno sfondamento contrario, le macerie ricadono sul palco. Al contempo gli spettatori seduti sul palco osservano i finti spettatori in tribuna, dunque le macerie cadono anche in platea. Direi che occorre pulire tutto il teatro, alla fine.
Recensione di Valentina Ersilia Matrascìa
[…] Come in un gioco di specchi, il teatro si svela a teatro ribaltando la prospettiva. Entrano in scena e si accomodano in platea. Non sappiamo se siano conoscenti, amici o qualcosa di più, prendono posto tra le poltroncine rosse della sala in fremente attesa dell’inizio della pièce. Lo sguardo è rivolto verso il palco, scrutano attenti davanti a loro. Lì dove, in assoluta controtendenza rispetto alla norma, c’è il pubblico.
Dopo qualche iniziale istante di imbarazzo – sono loro che guardano noi? Ci vedono? “In scena” ci siamo noi o loro? – la matassa inizia a dipanarsi: i due stanno assistendo ad uno spettacolo che ha come protagonisti un uomo e una donna […]
[…] Una piéce che mette in discussione l’identità stabile dello spettatore in quanto tale. Chi è davvero lo spettatore? Noi, seduti sul palco, o i due che assistono alla rappresentazione delle vicende dei due amanti? La risposta probabilmente sta nel gioco stesso del teatro, a cui attori e spettatori si prestano prendendo parte.
Del resto, «Tutto è possibile», recita il sottotitolo e ripetono gli interpreti più volte. Finzione e realtà si mescolano nel corso della messa in scena su più livelli e più piani incastrandosi senza difficoltà. Esiste davvero un netto confine tra attore e personaggio? E tra spettatore e rappresentazione?
Entertainment «indica – si legge nelle note di regia – un meridiano non segnato sulla carta della realtà, un ambiente in cui attori, spettatori e personaggi innescano un cortocircuito che confonde i ruoli: senza di te io non esisto. Il varco per entrare nel gioco delle parti viene aperto dall’amore, forza generatrice che unisce i giocatori e confonde gli scenari; l’amore ha il potere di cambiare la funzione dei partecipanti per prepararli a prendere sul serio l’intrattenimento in corso». […]
Piergiorgio Giacché (da Lo straniero n.141 CONTRASTO marzo 2022)
“I Menoventi e il periteatro” di Piergiorgio Giacchè Un Bilbolbul tutto contemporaneo “Introduzione” di Edo Chieregato –
[…] Ma raccontate così le loro pièces sembrano scherzi, mentre al contrario hanno lo spessore e arrivano al vertice di giochi d’attore sempre più raffinati ed esasperati, che si spendono e persino si sprecano in una relazione con lo spettatore tanto ridicola quanto angosciosa. Può sembrare ovvio: in effetti non si sa che pensare difronte ad attori che non sanno che fare, ma la loro coscienza della vanità e sapienza della banalità rende evidente la nostra insipienza e la nostra inutilità. Insomma, che ci stiamo a fare (o a pensare) a teatro? Perché anche in quello dei Menoventi c’è pur sempre un testo e un’azione, una situazione chiara e uno svolgimento ordinato. Eppure non c’è trama che tenga, ma continui incidenti e infinite smagliature ci trattengono fuori da una rappresentazione sempre promessa e sempre sospesa.
Insomma, in platea non si riesce a fare la nostra parte. Il trucco sta forse nel fatto che in scena gli attori sono determinati a “non fare” la loro. Sono loro allora, gli attori, a essere fuori dal teatro? Non ancora ma certamente stanno rischiosamente camminando ai bordi, avvertendo il brivido (ancora una volta, il freddo) di chi sta per precipitare.
Cosa c’è in effetti una volta fuori dal teatro e dalla sua piattaforma di finzione? Sicuramente non c’è più né la realtà materiale né la società dello spettacolo che se l’è mangiata: oggi come oggi dalla finzione non può si tornare indietro, si può solo procedere oltre il suo territorio convenzionale già civilizzato e appunto esplorare i poli artici e antartici della sua sferica (globale) superficie. Gli attori arrivano così a un umorismo postumo, poiché siamo da un pezzo già tutti “morti dal ridere”. Gli spettatori ugualmente fingono di divertirsi come fossero vivi, ma uno per tutti e tutti per uno, aggregati e spaesati come pinguini. Così, indecisa fra la complicità e il ricatto, la relazione teatrale fra spettatori e attori, arrivata ai suoi esigui confini, si mantiene in bilico, come sospesa in un baratro sotto il quale non c’è altro. Non c’è nulla.
“Periteatro”, sembra una battuta ma invece è una credibile definizione del teatro dei Menoventi.
Certo l’assonanza con il parateatro di grotowskiana memoria non è legittima, anzi è fuorviante. Come già detto, al contrario della sfida in profondità, quella dei Menoventi è una ricerca di esasperata superficialità: come equilibristi si muovono lungo il perimetro del teatro, dove non si può che girare all’infinito sempre prendendosi in giro. Come si è visto dagli spettacoli citati (per chi non li ha visti per davvero), i confini del teatro sono anche quelli materiali e banali di una scena che non ha nulla da far vedere e di uno spettacolo che non va a incominciare, di attese inappagate e di sorprese derise. Nell’estremo cerchio perimetrale della teatralità, la finzione e la fruizione camminano insieme, tenui e tese come corde che rischiano di spezzarsi, quando addirittura non si rischia invece di restarvi impiccati. […]