La sequenza
Per parlare bisogna avere una lingua, farsi parlare da una lingua. E quindi la questione dell’alfabeto
Lucia – qui c’è un fuori rispetto alla proiezione dello sguardo. Siamo insieme ma proiettate verso un oltre.
Ilenia – c’è un fuori ma è il primo tentativo di stare insieme in questo fuori perché cerchiamo la vicinanza, cerchiamo una lingua che ci accomuni. Cerchiamo di farci forza insieme. Prendersi cura non direttamente dello spazio ma, attraverso lo spazio che c’è tra i corpi, prendersi cura del corpo l’una dell’altra.
Lucia – sia che lo spazio sia ampio sia che sia più compresso c’è sempre questa cura. Muta la qualità ma c’è sempre questa cura. Più vicine, al centro, lavoriamo alla costruzione di un cardine. La sequenza è un cardine, una centralità. Ma qui come in tutte le altre fasi non c’è nessuna sopraffazione. C’è l’accettazione dell’alterità. E questa accettazione si fa motore e ragione del movimento individuale.
Recensione di Carlo Lei e Simone Pacini
https://www.klpteatro.it/paola-bianchi-simona-bertozzi-tdv-23
[…] Vogliamo però dedicare qui un po’ di spazio al progetto più aperto a sviluppi, perché ancora in fase di evoluzione (come è d’altronde nel più autentico stile di Teatri di Vetro), “Somewhere” di Lucia Guarino e Ilenia Romano. Non è la prima volta che Guarino, architetta oltre che danzatrice, si interroga sul rapporto tra spazio architettonico e corpo: va citato, sempre al festival romano, il laboratorio “in.col.to.“, la cui restituzione si tenne al teatro del lido di Ostia due anni fa, e “Superstite”, che ricordiamo come un rito di purificazione in rapporto a uno spazio deputato, un rettangolo disegnato dalle luci sul palco.
In “Somewhere” la coreografa si associa nella ideazione, costruzione ed esecuzione del progetto a Ilenia Romano, la cui prestanza scenica, in rapporto all’aerea presenza di Guarino, è squassante. L’esordio del lavoro è dedicato alla proiezione di immagini di risapute architetture-monstre (Corviale, le Vele di Scampia…), che contemporaneamente orientano e respingono lo sguardo in un fuori.
I corpi in scena entrano dopo e, anche loro, “all’esterno” di quegli spaventosi vuoti/pieni proiettati a tutta scena sul fondale. Sotto le luci ascetiche di Gianni Staropoli (tubi fluorescenti appena stondati da frontali neutri) la cinèsi improvvisamente esplode e il corpo di Romano e quello di Guarino sono presi a turno da una fibrillazione che è totalità di pieno nervoso, muscolare, elettrico, ma, anche qui come nei volumi in cemento armato, un pieno afasico, sfuggente di senso, che si consuma in sé. E, anche qui paradossalmente, è in questa afasia dei due corpi (così diversi nel reagire all’attraversamento di una vibrazione simile, tanto nei movimenti ipnoticamente rallentati dell’inizio quanto in quelle fibrillazioni) che si nasconde il mistero di una non rassegnata, dolorosa negazione, che neppure il finale caldo di luce può far venire meno, neppure nell’incontro delle due solitudini.
Quell’eventuale reciproca ricerca, più che abitare lo spazio (non lo fanno molto più delle proiezioni, che tornano con altri non-luoghi, come una decadente facciata razionalista), fa sì che i due esseri, in quel loro precipitare attorno a un vuoto, cerchino disperatamente uno spazio abitabile, un altro “pieno”, stavolta non meno topografico che interiore.[…]