Lei è Giovanna Velardi. Racconta in prima persona. In un dialetto che è il suo, il siciliano. La scena è familiare. Un giorno a casa, a tavola, con tanto pesce. I tre a tavola – Roberto, Giovanna stessa e il nipote – mangiano tanti tipi di pesce. Visi e mani pieni di unto. E qui Giovanna immagina e dice agli altri due – pensa se un cameraman viene e ti fa un primo piano? Tuttu ‘Ngrasciatu figghiu miu!
Il pesce, i visi unti, a destra uno stendino, di là il ferro da stiro… – sembravamo in un film di Ciprì e Maresco.
Finito il racconto Giovanna indossa un naso che ricorda Pinocchio – dobbiamo attenderci delle bugie? – poi va ad una lavagna e scrive: Ceci n’est pas une/mon autobiographie. Il sottotitolo dello spettacolo che stiamo vedendo e che si intitola Autobiografia. E di lì in poi, tutto quello che vedremo – e il piccolo racconto iniziale che abbiamo già visto e lo stesso titolo dello spettacolo – cadono sotto il segno dell’incertezza. È o non è l’autobiografia di Giovanna Velardi?
Evidentemente il sottotitolo è rubato a Magritte, alla famosa pipa disegnata sulla lavagna, anch’essa disegnata, con la sua celebre didascalia sotto. Sopra un’altra pipa, molto più grande, campeggia nello spazio del dipinto.
L’evidenza ci dice che è una pipa. Così l’evidenza del raccontino in siciliano ci dice che quel fatto è accaduto e fa parte dell’esistenza di Giovanna Velardi, è parte della sua autobiografia, in quanto è lei a raccontarcelo. Tuttavia, come là siamo nella pittura, qui siamo in teatro. Il fatto che Giovanna Velardi ci racconti un episodio della sua vita – ma non abbiamo nessuna prova che lo sia effettivamente e non l’avremmo neanche se davvero Ciprì e Maresco avessero furtivamente spiato la scena e girato in video l’accaduto, neanche quindi se l’assurda presenza di un cameraman si fosse realizzata – non è una garanzia né che sia accaduto, né che sia vero, né che sia accaduto così. Ma non abbiamo neanche un indizio per dire che sia falso. Ci racconta dettagli che ce lo fanno sembrare vero. Ma il luogo dal quale ce lo racconta è un palcoscenico. E quello in cui lo racconta è un teatro. E anche chi guarda è già situato su quel confine in cui vero e falso non hanno più alcuna ragion d’essere. E allora perché sottolinearlo? Perché scrivere, citando Magritte, che quello che vedremo non è un’autobiografia nonostante il titolo reciti esattamente Autobiografia?
E se ce lo avesse raccontato per la strada: – ohi Rrobi sai che m’è successo?… e via l’episodio del pesce, neanche in quel caso la verità autobiografica dell’episodio s’imporrebbe come incontestabile? Forse no. Entrerebbero in gioco molti altri fattori come il tono della voce, la prossimità, il grado di confidenza, la cornice insomma. Comunque, resterebbe un racconto. Tale resterebbe la sua natura. E il teatro, il palco sono solo gli amplificatori di questa impossibilità, attraverso il racconto, di entrare, di penetrare nella realtà.
E questo è il punto. Possiamo considerare la realtà un oggetto conoscibile? Oppure con Foucault – che disanima e analizza il dipinto di Magritte – pensiamo che l’azione intende perturbare e liberare immagine e linguaggio – e teatro – dal rapporto con la verità? Per gioco, per ironia.
Cosa ha a che vedere il teatro con la verità? Se poi la verità è la nostra o quella della biografia di qualcuno che ce la racconta in un movimento auto narrativo, e quindi la chiamiamo autobiografia, che cosa dobbiamo aspettarci in merito alla verità? Che cosa pensiamo di voler vedere? Qual è la posizione, la postura di noi che guardiamo, visto che onestamente Giovanna – che ci ha invitato a vedere Autobiografia – ci sta scrivendo davanti agli occhi – non ce lo dice e basta, lo fissa lì, sulla lavagna – Ceci n’est pas une/mon autobiographie? Neanche non è la sua, non è nemmeno un’autobiografia tout court.
Bene.
Forse allora Giovanna sta negoziando con noi la posizione che noi, che stiamo vedendo Autobiografia, possiamo assumere, forse dobbiamo assumere. E questa posizione è mettersi in quel punto in cui una cosa è e non è al tempo stesso qualche cosa. Esattamente come il dipinto di Magritte. Mettersi nella zona di quel calligramma disfatto. O come dice Foucault: “allora, sui suoi piedi smussati e così visibilmente instabili, il cavalletto ormai non può che precipitare, la cornice sfasciarsi, il quadro cadere in terra, le lettere sparpagliarsi, la «pipa» non può ormai che «rompersi»: il luogo comune – opera banale o lezione quotidiana – è scomparso.”
Cosa resta allora?
L’enigma che è ogni gesto artistico.
E bisogna arrivare alla fine dello spettacolo. Al cortocircuito in cui Giovanna con il naso rosso – e la maschera danzante del clown – dice e ripete a noi spettatori continuando a danzare: – Giovanna Velardi sono… ma qui lavoro solo io…ma perché lavoro solo io? per sentire che in quell’io che si è andato definendo grazie alla nostra presenza – ma non ora, nell’arco dei 45’ di spettacolo, da sempre, dall’inizio della sua prima danza quando era solo una bambina – non c’è l’autobiografia di un artista, ma ci sono tutti gli elementi esatti del suo linguaggio, della sua danza, del suo segno al mondo. C’è il corpo sulla scena, che è il suo, complessità infinita di piani, livelli, tensioni, rilasci, immagini, tecniche, storia. Ci sono i frammenti – ironici – di una vita d’artista. Ma sono frammenti, gesti, sequenze. Ci sono i pezzi che è Giovanna Velardi. E ci sono i pezzi che siamo noi che la stiamo guardando.
Roberta Nicolai