A partire da un’indagine sul pensiero di Debord, indaghiamo lo statuto dell’immagine nell’epoca della “schermocrazia”. Monás è un’opera ibrida tra installazione partecipata, autopoiesi coreografica e live cinema, che dà vita ad una “micro società provvisoria”, uno spazio di coesistenza. Il dispositivo scenico a cui partecipa il pubblico è concepito come un ecosistema, all’interno del quale è possibile fare esperienza del differimento del proprio corpo in immagine, per riflettere sul rapporto tra spazio reale e spazio di rappresentazione; e come in questa frattura si subisca o si pratichi un esercizio di potere. In una reciproca interferenza, il corpo e il suo doppio danno vita ad un paesaggio fatto di figure alla “deriva”, che nello schermo restano evocazione e rappresentazione. Quando il gioco si consuma in ripetizione appare la sostanza reale delle cose.