L’ esigenza di sempre è di stare dalla parte del corpo, di ritrovare il linguaggio del corpo, fondarlo dal corpo. Ogni creazione è un nuovo inizio, un nuovo sentore delle cose del mondo e che in realtà ci sfuggono e per questa loro fuga ci muovono, ci interrogano, ci scuotono terribilmente. Ci muoviamo per risolvere un’oscurità d’animo, viverci uno stato del corpo precario. Questa epoca ci regala le sue cecità di senso, le sue accensioni e visioni. Ci si ritrova al limite della loro percezione come in un tempo saturo, in uno spazio pieno. A chi rivolgere la traduzione di una inquietudine pudica e feroce? Per la scena il corpo è abbandonato come una reliquia nella nudità di uno spazio. Gli unici atti possibili sono verso se stessi, nell’attesa e nel bisogno di ritrovare la sacralità di una profonda natura. È una prima esposizione percettiva. Ne deriva una seconda dove si è mossi da furori interni, animalità sonore, voci esterne. Si è spinti quasi al limite, per ricontattare l’epicità delle proprie forze e la gravità spirituale di un senso ulteriore. L’inquietudine del lavoro si misura nel desiderio e mistero di poter avvertire un indicibile corporeo, un invisibile poetico, qualcosa come un’ombra che sembra costantemente scivolarci accanto densa e silenziosa. L’atto del guardare è l’atto del guardarsi, di portarsi al confine dei sensi e delle visioni e registrarne gli odori.