
Dal vero avversario, passa in te un coraggio illimitato.
Franz Kafka
In una delle notti difficili di luglio ho sognato un teatro impraticabile. Una macchina sghemba.
Il palcoscenico era un intreccio di piani a diverse altezze, collegati da corridoi, angoli, canali pieni d’acqua. Un’architettura impervia, dove i livelli si accavallavano moltiplicando angoli invisibili e zone nascoste.
Entrando in scena, la platea restava completamente celata, e tale rimaneva a lungo. Per raggiungere il proscenio bisognava discendere i piani, attraversare corridoi, saltare scaloni, svoltare infiniti angoli, guadare i canali. Rendere presente il proprio corpo agli spettatori era un’impresa atletica.
La platea, immersa nell’acqua, era quasi deserta, se non per qualche barca affollata di teste avvolte in cenci e foulard contro l’umidità. Gli spettatori, immobili sulle loro barche galleggianti, osservavano annoiati la bizzarra architettura più tesa a nascondere che a mostrare, con una facciata articolata e imponente, simile all’interno esploso di una cattedrale gotica mescolato con l’esterno, un edificio che sfidava ogni regola ingegneristica.
Ma era davvero un teatro?
Sì, ne ero certa, per quel piccolo varco in fondo, dove lo sguardo poteva ancorarsi e dove il performer temerario, dopo aver girato, guadato e saltato, poteva finalmente lanciare il suo gesto.
Nel sogno riflettevo sull’uso scenico di quell’architettura insolita.
La scelta più semplice sarebbe stata quella di impegnare solo il piano inferiore, quello affacciato sulla laguna, desertificando il resto dell’edificio. Usare l’immensa architettura come sfondo e mettere le proprie figurine belle in vista, piatte davanti agli spettatori, lasciandoli sulle barche galleggianti al loro destino e ai loro raffreddori.
Ma devo aver insistito – non ricordo con chi o contro chi – per abitare tutto l’edificio, aprendo le possibilità dell’infinitamente lontano e dell’infinitamente vicino.
Così, decine di performer iniziano le loro acrobazie estreme, dimenticano il ruolo e creano in tempo reale. Le barche del pubblico prendono a risalire lungo i canali, come salmoni controcorrente e ai loro occhi si svelano angoli e scorci minuti, dettagli di corpi in azione. Le barche si animano di rare emozioni, di scoperte preziose.
E in breve quel teatro impossibile si trasforma in un “borgo” popolato da artisti e spettatori insieme.
Certo, per quanti sforzi facessimo, non tutto riusciva a diventare visibile.
Le zone nascoste, al contrario, si stavano moltiplicando all’infinito, di barca in barca, di spettatore in spettatore, di artista in artista. Una vertigine.
Ma tutto aveva preso vita.
Roberta Nicolai
Questo testo è il terzo movimento di un racconto in tre tempi. Qui i primi due passaggi:




