VALERIA VANNUCCI
Il cuore articolare è una modalità di lavoro applicata al corpo del performer, una metodologia, il centro della tensione coreografica, una visualizzazione – poi Giovanna ci spiegherà anche dove è situato – un dispositivo tecnico, un metodo di movimento, un manifesto, uno spettacolo, una maschera danzante, un trasmettitore, un centro anatomico. Ed è, per quanto possiamo capire, il centro, l’origine dal quale poi scaturisce il percorso di Giovanna, elaborato e costruito durante tutto il suo percorso, mettendo man mano un tassello alla volta fino all’elaborazione finale.
GIOVANNA VELARDI
Ricordo che la più cara amica di mia madre una volta mi disse: «Sai, tu eri piccola e già mi dicevi, guarda, faccio una coreografia». Potevo avere quattro anni. Nasci con questo bisogno. C’è chi parla di intelligenza musicale, cinetica. Forse io ho quel grado di intelligenza più sviluppata, piuttosto che quella intrapersonale o sociale. Mi ha accompagnato da sempre, tutta la mia vita. Però c’è stato un momento ben preciso in cui la parte più mentale, intellettuale – che, secondo me, si era presa mio fratello gemello – ho cercato di metterla insieme al movimento e al corpo. Anche questo è stato un bisogno. Alla fine, ho cercato una sorta di equilibrio. Ho avuto l’esigenza di nutrirmi anche di letteratura, di critica, di approfondire certi aspetti della filosofia, di non studiare solo la danza, la tecnica, andare a lezione. Sicuramente c’è questo aspetto dello stare, del condividere i luoghi con la mia famiglia, un ambiente in cui risuonavano delle cose, anche questo ti fa fare delle scelte. Sentivo parlare di Thomas Mann, dei fratelli Karamazov. C’era tutto questo mondo di fantasmi a casa mia e una libreria piena zeppa di libri. Sono cose che ti fanno assumere delle posture. È come se volessi una sorta di integrità. Poi ho i genitori medici, quindi a un certo punto, dopo che ho strutturato il cuore articolare, ho pensato che fosse anche una sorta di eredità. Mi sono ritrovata a strutturare il centro del centro anatomico pensando all’epigastrio, all’ipogastrio.
Tutto ciò che riguarda la danza l’ho praticato sempre come se fosse un’azione politica per me, tanto che appunto mi sono ritrovata a fare delle battaglie politiche. Agire politicamente con il corpo penso sia una scelta e un bisogno per me. Forse parte da lontano questo desiderio di praticare la danza in tutte le sue possibilità. A 14 anni, ho vinto il concorso. L’insegnante credeva nel mio talento, però poi ho avuto una crisi. Ci sono dei momenti in cui tu cerchi qualcosa ma non sai cosa esattamente, neanche sai dare un nome a quella cosa. E c’è stato qualcuno che mi ha afferrato per i capelli e mi ha detto: vai in Francia. Quando sei in crisi c’è sempre qualche cosa, qualcuno dall’esterno che ti afferra. E quindi io mi sono imbarcata in questo viaggio verso Avignone dove sono stata quattro anni, poi sono stata a Marsiglia tantissimi anni. E alla Francia devo tanto. Ho incontrato delle persone meravigliose che hanno scommesso su di me in modo profondo. Io lo chiamo lo Stato del papà dove si scommette sulle persone veramente, si dà l’opportunità di avere un ruolo sociale che coincide anche con il fatto che hai un reddito. Cresci con l’idea che forse ti meriti qualcosa, che puoi fare qualcosa e questa è politica sociale perché appunto la politica è questo quello che dovrebbe fare, dare la possibilità di fare qualcosa.
Ho incontrato Geneviève Sorin che è stata una seconda mamma e mi ha iniziato all’improvvisazione. Lei è una specialista dell’improvvisazione. Io avevo il desiderio di affrontare delle tematiche, di prendere dei rischi, e lei capiva subito, accoglieva perfettamente i salti che volevo fare. Mi aiutava a fare questi salti. Lavoravamo sempre in rapporto con la musica. E lì ho avuto la possibilità di fare i primi lavori, di sperimentare e di ricevere la prima sovvenzione. Insomma, ero una giovane emergente a vent’anni. Non era così difficile. Poi per motivi anche intuitivi, sentivo arrivare la crisi del 2008 e c’erano anche delle situazioni familiari complicate, ho sentito che dovevo tornare a combattere e lo dovevo fare nel mio Paese. Capita che razionalmente devi fare delle scelte ma intuitivamente ne devi fare altre. Ho seguito il cuore e sono tornata a casa. E ho sofferto tantissimo perché non esisteva niente. C’era il nulla per me in Italia, nessun fermento. Mi sono imbarcata a fare una battaglia nazionale contro un decreto che impediva il ricambio generazionale. Ci siamo riuniti a Roma. Divisi in tavoli regionali. Chiedevamo delle cose per la crescita della danza, l’accesso ai teatri … e lì ho incontrato Danila Blasi, Roberta Nicolai, tutto il mondo romano. Mi sono messa a chiamare al telefono il Senato… siamo riusciti ad aggregarci, a creare una rete familiare. Forse in quel momento io avevo bisogno di questo.
Ho sempre cercato una vicinanza con le altre arti, con il teatro e con la musica. Ho sempre cercato nel linguaggio delle novità, ho sempre cercato degli strumenti per poter raccontare in modo non scontato. E così siamo arrivati all’incontro con Roberta, con Fausto Paravidino. Questo era il mio bisogno per poter approfondire, per poter parlare con dei codici nuovi.