VALERIA VANNUCCI
Sulla scia appunto di questo impegno, questa forza, questa dirompenza che vediamo tanto in scena e che poi si riflette nell’azione politica e in tutti gli altri aspetti della vita. La parola cuore la usi spesso e volentieri – al di là del dispositivo del cuore articolare – è evidentemente qualcosa che è presente nel tuo sentire e nel tuo immaginario.
Prima di entrare nel cuore articolare, visto che abbiamo nominato Geneviève, ti vorrei chiedere quanto a oggi ancora vivi di quell’eredità. Sia lei che Alwin Nikolais sono entrambi stati fondamentali per arrivare al tuo metodo di improvvisazione elaborato in chiave personale.
GIOVANNA VELARDI
Nikolais era un grande pioniere, un grande della danza astratta. I principi li conosciamo tutti: l’energia, lo spazio, la forma. Nikolais è partito dalle marionette, e anche io sono partita dalla marionetta. Il mio primo lavoro si chiamava La marionetta. Nikolais è arrivato in un secondo momento nella mia vita. Penso che molti coreografi lavorino sulla disarticolazione che è la prima cosa che si fa, lavorare sulla decentralizzazione per spostare dal centro a un’altra parte del corpo. Solo che lui l’ha sviluppata lavorando sul training. L’ha sviluppata a suo modo. L’ho incontrato negli studi in Accademia e mi è servito tantissimo. Anche il mio dispositivo viene fuori grazie agli studi in Accademia. Prima di dare una l’immagine al metodo ho passato tanto tempo nel mio training. Lavoravo sempre con l’improvvisazione o per approfondire qualche principio tecnico o per far emergere tematiche precise. C’era questa sorta di eserciziario che mi metteva in moto. Lo chiamavo anche prontuario – a proposito dei genitori medici – e riguardava il lavoro sui livelli, dalla parte bassa, quindi dal pavimento, e piano piano tutto un lavoro di spinte che ti porta alla verticalizzazione. Tutto era stato sezionato: il centro basso e gli arti inferiori, il centro alto e le parti superiori, poi le superfici d’appoggio e le spinte. In Accademia, studiando anche Laban, l’ho messo a punto e mi si è accesa la lampadina: se io non sono disponibile col corpo nella zona pubica, si blocca qualcosa, non riesco a essere fluida, cioè l’energia non passa. Ricordo che un giorno mentre ero seduta che ascoltavo, forse c’era Francesca Falcone che stava facendo Teoria dell’armonia, ho cominciato a disegnare quello che piano piano avevo sperimentato. Che cosa per me voleva dire non bloccare quella zona, mettere insieme una zona con un’altra, per far fluire l’energia ed essere consapevole di quando una postura richiede una grande tensione, di usare quella grande tensione senza farmi male o per poter far esprimere quel personaggio.
Per me è stata anche una rivelazione, perché questo giochino del cuore articolare che è fatto di quadranti mi ha permesso di trovare quei volumi fisici che ti consentono anche di giocare il personaggio. Io focalizzo nel corpo un punto di tensione di un personaggio. È difficile, è una mappa di riferimento, un allenamento è faticoso, ma è così.
VALERIA VANNUCCI
Partiamo magari dal posizionare in maniera più specifica il cuore articolare e parliamo anche di quelle che chiami finestre oblò.
GIOVANNA VELARDI
Io penso a ogni punto, in particolare 1 e 2, soprattutto come delle articolazioni vere e proprie. Il punto 1 si trova nell’epigastrio, cioè la bocca dello stomaco. Se io vi blocco questa zona l’energia non passa più, se la rilascio, lo rendo disponibile, questa zona parla. Devo sempre immaginare il cuore tridimensionale, ha un dietro, un avanti e devo sempre pensare che degli occhi guardano da me a fuori in tutte le direzioni, quindi le chiamo finestre oblò. Immaginatele come un’articolazione. Poi questa zona si mette in contatto con le parti superiori del corpo. Il punto 2 è la zona pensata come un’articolazione mobile sempre tridimensionale, detta ipogastrio. E poi lavoro su questi quadranti – così li chiamano in medicina. Tutto questo per restituire mobilità alla pancia, ovviamente, perché spesso facendo danza è difficile parlare dei volumi della zona lombare e non immobilizzarla. Per riuscire a restituire gamma di mobilità alla zona della pancia, mi sono inventata questo giochino.
Io ho preso il cuore e l’ho messo nella zona ombelicale che è una cosa che non si fa. Quando si dice danza con le viscere. Una parte forte del corpo, energetica. Zona contenitore e contenuta: contenuta dallo spazio e che contiene spazio. È un po’ una zona simbolica. Un simbolo di unità. Dal centro si diramano tantissimi raggi che posso pensare tutt’uno con lo spazio. Il cuore lo posso immaginare proiettato nello spazio. Questo mi aiuta a dare vitalità ad una postura. E anche tutto il lavoro oculare viene da questo lavoro di appoggi continui, da questa consapevolezza, tensione e rilascio. Ma se non bado a questa zona tutto diventa più faticoso. Il cuore articolare è un simbolo di vitalità: restituire energia vitale al corpo che si muove.
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SIMONA SILVESTRI e MARIAVITTORIA RUMOLO IUNCO, coinvolte come osservatrici a Oscillazioni per raccogliere suggestioni da elaborare, in un secondo momento, in forma scritta non delle recensioni, non dei saggi su Teatri di Vetro, ma un Diario, una raccolta multiforme che possa generare un’altra possibile traiettoria di indagine rispetto a quella prettamente corporea, hanno posto agli artisti una questione:
CHE COSA SIGNIFICA PER VOI DRAMMATURGIA E, DI CONSEGUENZA, CHE FORMA ASSUME NELLA VOSTRA RICERCA.
GIOVANNA A me piace la parola drammaturgia perché dà una sorta di aria intellettuale alla danza. A parte lo scherzo, a me piace perché impone una riflessione sulle parole che non è scontata e secondo me dovuta al periodo che viviamo, anche a tutto il discorso post pandemico in cui si è riacceso un faro sul peso stesso della parola. Inoltre, ha permesso di aprire molte riflessioni anche sui processi, almeno è quello che è successo a me. Anche se di drammaturgia nella danza se ne parla da molto, da Pina Bausch in poi, mi viene da pensare che forse è nata l’esigenza da parte più degli operatori che dei coreografi di reinserire questa parola nel processo di creazione, probabilmente perché lo sguardo dell’operatore è uno sguardo più registico e forse ha avuto il bisogno di capirne di più di danza. C’è nel complesso una grossa riflessione sulla riapertura di un processo di senso legato al percorso coreografico e al processo creativo che per me fa parte proprio del discorso della scrittura, della composizione e del senso stesso di quello che sto facendo.
A me ha incuriosito approfondire il tema della drammaturgia e mi viene da pensare a tutto quel periodo in cui, partendo da Flexing Heart, ho pensato sempre più al perché e al come costruire una pièce coreografica, se partire dal corpo o da altro. Bene o male sono sempre partita da questo, però ho anche sempre pensato che i miei lavori hanno un ‘polifocus’ (uso questa parola che non esiste). Una pièce può partire da un personaggio o da un’immagine, lo sappiamo tutti, però è nella pratica che si costruisce il lavoro, quindi per me si parte sempre dal corpo, ma se non è nutrito da altro, se non si agisce l’azione stessa, quest’ultima è poi separata da un senso globale del lavoro. Innanzitutto, in questo processo di elaborazione si è investiti da una responsabilità enorme. Se lo fai per te stessa poco importano gli altri, ma se si ha la pretesa, anche la presunzione di dirigere quel qualcosa su cui si lavora, creando per uno spettatore che in più ti deve pagare il biglietto, la responsabilità è grossa, ancor più quando prendi finanziamenti pubblici. Perciò non basta che il processo creativo sia un’esigenza personale, perché rischia di diventare terapeutico. Il senso della creazione per me ha a che fare proprio con quello che mi stai dicendo, che non significa raccontare una storia, ma con l’essere investiti di un ruolo. Soprattutto dopo Flexing Heart, con I broke the ice and saw the eclipse il lavoro drammaturgico è diventato assolutamente legato all’azione, a come stai agendo pensando di essere quella cosa, con quella autenticità che non è verità, ma allenamento fisico, un allenamento che richiede ascolto ed è un allenamento che richiede relazione. Per me ha a che fare molto con lo sguardo e con un legame imprescindibile col mondo del teatro. I broke the ice and saw the eclipse mi ha permesso anche di capire che significa tutto questo parlare di drammaturgia – che vuol dire tutto vuol dire niente – e di accettare che forse la formula estetica del contemporaneo, i suoi linguaggi performativi, forse si rinchiudono in dei puzzle alla ricerca di un senso. Con Autobiografia è successa un po’ la stessa cosa, ossia di dare forza a un percorso personale grazie anche allo sguardo dell’altro, perciò la pièce si crea e si sviluppa con una consapevolezza dei materiali o del lavoro che vengono agiti forti della biografia personale, ma sempre nella relazione e nello sguardo altrui i quali ti aiutano a inglobare, mettere dei confini aperti a quella cosa. Bisogna avere la possibilità di rivedere, di rimettere mani sulle cose e stare in una sorta di indefinitezza nel finito di qualcosa. È un processo continuamente in fase di costruzione. Per me è così, ma è così anche in Autobiografia: tu rivedi delle cose, poi ci metti il tuo, però la vita va avanti. Quindi questo sguardo dell’altro diventa anche prezioso per compiere un processo drammaturgico. Per me questo è drammaturgia: il recuperare questa dimensione intellettuale di cui abbiamo evidentemente bisogno, o anche critica dello sguardo altrui. E guarda caso questo interesse nasce proprio – e questo è il mio punto di vista personale – dalla forza degli operatori di oggi. Magari mentre prima gli artisti avevano un peso diverso oggi forse gli operatori dirigono, costruiscono le traiettorie dove l’artista spesso si muove.