Lo spazio pubblico abitato dai corpi, lo spazio dato dai corpi. Produce – potremmo dire è – tante frequenze tangibili in termini di suoni, rumori, rimbalzi, campanelli, richiami e in scie di movimento, rotolamenti, corse, stasi. Un parco è un caos apparente che si muove, si svuota e si riempie a seconda delle ore del giorno. Vede e prevede invasioni e deserti, tempi urlati e tempi sussurrati, periodi regolati e periodi privi di ordine. Come un organismo il parco si sveglia lento, trascina le sue ore accaldate, esplode in un caleidoscopio di giochi noti e inventati, si distende con le ombre lunghe fino ad addormentarsi.
Bruegel quel caos apparente l’ha ordinato nella sua visione aerea di pittore in Giochi di bambini. Solo in apparenza diverso da Villa Lais all’uscita dalle scuole quando il parco si riempie di bambini che vogliono scrollarsi di dosso la compressione di ore trascorse seduti nei banchi e tirano pallonate da bomber, innalzano le loro bici in pinne che sembrano eterne, magicamente evitando di scontrarsi gli uni con gli altri e di travolgere i più piccoli, ignari e a loro agio dentro un frullatore di accadimenti.
Una durezza di cui Bruegel doveva essere consapevole con i suoi giochi scurrili, con le esposizioni oscene, con la compressione di giochi e di corpi e una prossimità che non prevede un campo e un terreno delimitato ma sovrapposizione, convivenza.
È in questa cornice che abbiamo progettato e realizzato PLAY. Tre ambiti disciplinari della scena e della sperimentazione contemporanea, tre progetti partecipativi all’interno dello spazio pubblico, un anfiteatro che i cittadini – bambini e adulti – pensano sia una pista di non meglio definito utilizzo sulla quale convivono palle, biciclette, pattini, monopattini di diversa grandezza e velocità a seconda dell’utilizzatore.
In questo ecosistema del tutto bastante a se stesso, a seconda delle ore saturo e desertificato, abbiamo voluto inserire una frequenza anomala, quella di corporeità mosse da altre regole, da altri intenti e agganciate le une alle altre da un ascolto sottile e visibile solo negli eventi, nei movimenti dei corpi.
Playground#Roma ha introdotto nel parco corpi in oscillazione continua tra sospensioni e accelerazioni, tra traiettorie nette e stasi contemplative, tra cura del corpo altrui e immagine in un fraseggio musicale del paesaggio umano e architettonico e in una copresenza di corpi di diversa età e sapienza. Ha tracciato quelle linee spirituali e poetiche mancanti, ha fatto emergere le materie già presenti. Una compenetrazione di energie e di spazi a volte negoziata a volte silenziosa.
Così i cittadini di Villa Lais si sono resi conto che la pista è un anfiteatro. Per fortuna poroso, senza muri, recinzioni o sbarramenti. Un anfiteatro dove si può giocare a pallone e pinnare con la bici ma dove può accadere che si inserisca un gioco diverso, quello della scena, portando il suo esubero corporeo e l’apertura della potenzialità assoluta in ciò che pensiamo realtà.
La restituzione al termine della settimana di laboratori di Opera bianco con i bambini e gli anziani – lo spettacolo – è stato un evento magico. Accade a volte – ma è raro – che un evento artistico, nel suo breve arco temporale, riesca a catalizzare stati dell’umano, condizioni atmosferiche, posture performative generando un flusso di trasformazioni dei corpi, del paesaggio e delle stagioni. Playgroud#Roma ci ha trasportato dalla dimensione quotidiana di Villa Lais ad uno stato di rapimento collettivo.
Quando è stato il turno di PLAYCLOWN avevamo i sensi ancora scossi dell’esperienza mistica di Playground e con Fiora Blasi abbiamo riflettuto su quale potesse essere una traiettoria per portare il clown all’interno dello spazio pubblico. Alle spalle avremmo avuto cinque giorni di laboratorio con un gruppo di persone di diversa provenienza, età e formazione. Se, come diceva il mio maestro, per fare un clown ci vogliono dieci anni di apprendistato, facendo i conti al momento dell’apertura pubblica i nostri clown sarebbero stati allo 0,14% del loro percorso. Non poco in realtà, ma non sufficiente per una composizione scenica complessa. Inoltre, aveva davvero senso imporre nell’anfiteatro uno spettacolo fatto e finito? In che modo al contrario avremmo potuto continuare ad esplorare gradi di respirazione tra arte e vita, tra corporeità animate da istanze diverse – cittadini e artisti – eppure compresenti e comunità temporanea di Villa Lais, quel giorno in quell’ora?
Così l’andatura del parco, il suo addensarsi e il suo svuotarsi, è stato il primo elemento compositivo per il gruppo di quattordici giovani clown impegnati alla fine in un’impresa ben più complessa di uno spettacolo: uno spettacolo fatto di fasi, di tempi collettivi, di assembramenti, nello spazio dell’anfiteatro e di dispersione nell’intero spazio del parco per lo sviluppo di temi individuali. Tutti insieme e da soli o in due, a diversi gradi di prossimità con lo spettatore, fino a giocare il ribaltamento totale e applaudire se stessi seduti sulle gradinate con davanti una pista piena di bambini che al loro volta li applaudivano. Perché si sa che il clown è un entusiasta inarrestabile e qualsiasi cosa – anche uno spettacolo destrutturato – diventa, per gioco e per follia, lo spettacolo più straordinario del mondo. E forse quando uno spettacolo decostruito è fatto di potenzialità, di promesse di numeri e non di numeri consolidati, di lanci verso il futuro e non di consuetudini note, il clown respira e noi con lui.
Difficile l’arte del clown. Incastrata immeritatamente in clichè mortiferi. Ricoperta di retorica. Anche grazie allo spazio pubblico questa volta la sperimentazione ha aperto riflessioni nuove che ci accompagneranno nella ricerca futura.
Con la musica si gioca facile. La straordinaria bravura di Antonino Talamo ha fatto sì che in poche ore di lavoro ci fosse una piccola orchestra di percussioni corporali nel parco. Un impegno corporeo e mentale incredibile che si restituisce allo spettatore in una modalità fluida e disimpegnata. Anche su questa particolare qualità della presenza della musica – e del musicista – avremo da riflettere.
Così PLAY si è concluso. Ma anche questa conclusione è apparente. I progetti che stiamo portando avanti nascono dalle squame che l’animale – così chiamo la nostra progettualità – muovendosi lascia sul terreno. La testa e il cuore di questo animale è Teatri di Vetro ma tutti gli altri progetti che sono nati in questi anni e forse nasceranno, ereditano alcune questioni e intorno a queste articolano la loro esistenza. Play è una squama che si è fatta corpo a sé. È già di nuovo in cammino, riunita all’animale che salta fin dove può e quando non può saltare più in alto, striscia. Sul terreno restano le sue squame lucenti.
Roberta Nicolai