L’infrasottile è la categoria sotto la quale Duchamp riunisce tutte le sostanze, gli stati, le differenze minime, le condivisioni, i passaggi di stato al limite dell’impercettibile e del distinguibile […] , il rumore o la musica prodotti da un pantalone di velluto a coste mentre si respira; l’incavo della carta tra recto e verso di un foglio sottile; sostanze come il vetro e naturalmente la polvere, il fumo, il gas; oppure strane presenze al limite della materialità: l’ombra, il calore, l’odore, la voce bassa, il sussurro; ma soprattutto qualità e modi d’essere: il marezzato, l’iridato, l’aderenza, la porosità; poi ancora: il tempo, ciò che si svolge all’ultimo momento (“il ritardo”), l’oblio, l’intervallo, ciò che non ha interesse, il non far niente. (Elio Grazioli, Duchamp oltre la fotografia. Strategie dell’infrasottile)
Un cambiamento di scala, di abiti, di dimensioni.
Siamo partiti dall’infrasottile duchampiano e siamo arrivati agli intrecci delle camice in tartan.
Il tessuto che ricopre il corpo si espande nello spazio. Una “faccenda cutanea” espansa. Tutte le superfici diventano come la pelle, recettori sensibili, ricettacoli di memorie, tracce. Ogni cosa è permeata dalla presenza dalla trasformazione continua. Un senso del domestico, tappeto da pic nic, coperta, flanella del grunge anni 90, camicia di nonni e zii. Cose immagini pagine di diari segreti, foto di case vecchie attraversano lateralmente la mente.
Architettura, moda e cinema si rivelano fantasiosi creatori di immagini in movimento. Tutti giocano con i tessuti stratificati del disegno di superficie delle cose, nel modo che è proprio a ciascuno di abitare il mondo sensibile. La forma di questo abitare è la pubblica intimità dello spazio vissuto, segnato dall’habitus. Dopotutto l’habitus, in quanto modo di essere, si radica nell’habitare. […] noi abitiamo tattilmente lo spazio per abitudine. Ora, se abitudine e abitazione sono apticamente collegati, l’abito è un elemento della loro connessione. C’è un legame aptico, che collega, perfino etimologicamente, l’avere un riparo al vestire il corpo. […] Ci indirizziamo verso un abito come se entrassimo in una casa o in una sala cinematografica: indossandolo. […] Occupare uno spazio è, alla lettera, indossarlo. (Giuliana Bruno, Superfici)
Siamo fatti della stessa materia degli oggetti.
Momento di transizione, lo spogliatoio, il cambiarsi d’abito, l’introduzione di oggetti in plastica e altri materiali che implicano una diversa sensibilità tattile, veicolata dallo sguardo, come un occhio che tocca.
Accostamenti improbabili di colori, pose, la pelle che si scopre, in una mollezza stancamente lasciva della presenza.
Entrare e uscire dalla luce, altra forma di oscillazione. Vedere e occultare.