Bataville | l’usine
20 – 24 settembre 2022
residenza creativa
Caracol Olol Jackson | Vicenza
il Caracol è uno spazio di accoglienza e condivisione, luogo prezioso in questi tempi di chiusura verso l’esterno. qui le persone vengono prima di ogni altra cosa!
interviste a Imran, Teo, Oprea, Massimiliano
pickeristi
voice
un auricolare con microfono: voce automatica che impartisce ordini. riconoscimento vocale
Imran descrive lo spazio in cui lavora: un enorme capannone suddiviso da colonne. nel farlo elenca l’alfabeto al contrario
visitiamo clandestinamente lo stabilimento abbandonato Lanerossi di Vicenza
visitiamo la fabbrica Amer di Valdagno
gli uffici della dirigenza dominano la fabbrica – una grande vetrata
sotto operaie e operai al lavoro come in un acquario – silenzio
scendiamo – camminiamo in mezzo alle operaie e agli operai – rumore
dall’alto sembrava tutta un’altra cosa
gesti ripetitivi
vietato fotografare
intervista a Gianna
industria tessile
fischio
rumore delle ventole
filati sopra la testa da controllare
visitiamo lo stabilimento abbandonato Lanerossi di Schio
visitiamo clandestinamente lo stabilimento abbandonato Lanerossi di Vicenza
visitiamo la fabbrica Amer di Valdagno
gli uffici della dirigenza dominano la fabbrica – una grande vetrata
sotto operaie e operai al lavoro come in un acquario – silenzio
scendiamo – camminiamo in mezzo alle operaie e agli operai – rumore
dall’alto sembrava tutta un’altra cosa
gesti ripetitivi
vietato fotografare
ARCHIVIO O DEPOSITO?*
“La parola archivio porta con sé un senso di autorità, di antichità, di ripostiglio, di luogo chiuso e organizzato – un grande armadio. Cosa significa allora cambiare la parola autorità in autorialità, antichità in contemporaneità, ripostiglio in spazio aperto e disorganizzato per dare nuova vita a questa parola? Qual è la logica di archiviazione del corpo?
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Il progetto di ricerca coreografica ELP ruota intorno a una serie di archivi. Archivi di immagini depositate nella memoria visiva, fissate nella retina di alcune persone da me contattate; archivi di posture del mio corpo nate dall’incarnazione di quelle immagini (il mio corpo come archivio); archivi di descrizione di quelle posture in forma di file audio; archivi di corpi che hanno incarnato le descrizioni.
[ … ]
I materiali che stiamo raccogliendo nel progetto FABRICA sono ibridi, non più solo immagini ma anche testimonianze reali, parole e corpi, persone in carne e ossa con cui io e Stefano Murgia, che con me porta avanti questa ricerca e che crea i suoni delle varie performance, abbiamo interagito. Dall’esperienza ancora ridotta, abbiamo al momento individuato una serie di archivi (posso ancora chiamarli così?): immagini provenienti dagli archivi storici delle aziende che immortalano lavoratrici e lavoratori all’interno delle fabbriche – immagini generalmente poco veritiere, propagandistiche (operai e operaie in posa, sorridenti e vestiti di tutto punto); immagini video e fotografiche catturate da noi durante le visite in fabbriche abbandonate; immagini fissate nei nostri occhi durante le visite in fabbriche tuttora attive (le foto sono vietate per problemi legati allo spionaggio aziendale); suoni registrati, a volte di nascosto, nella fabbriche attive; parole delle persone intervistate, la descrizione dei movimenti, delle condizioni di lavoro, degli orari di lavoro, della fatica, dei dolori in alcune parti del corpo; movimenti mimati dalle persone intervistate nell’atto di compiere quei gesti ripetuti per anni; sogni, o meglio, incubi ricorrenti legati al lavoro. Una varietà di contenuti che determina differenti modalità in cui il mio corpo riceve, immagazzina, accoglie tali informazioni.
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Nel caso di elementi, informazioni che arrivano direttamente da interviste, dal contatto diretto con le persone, entra in campo un aspetto non indifferente nella messa in corpo di quelle parole o immagini: l’empatia. Il mio corpo si fa mappa sentimentale di quei corpi, di quei racconti. Come posso non considerare il tono della voce, la sofferenza dei racconti, la fatica del corpo, le mani deformate dal lavoro, i dolori indotti dalla ripetizione di uno stesso gesto per 8 ore al giorno, per 5 e anche 6 giorni alla settimana, per 10, 20, 40 anni?
Ecco perché FABRICA è un viaggio atto a creare una mappa emotiva di corpi e luoghi. Quando entra in campo l’emotività, il sentimento di vicinanza, l’immedesimazione nella fatica, il corpo reagisce in profondità. Si attiva un livello più interno di connessione tra la fonte e il corpo in azione. Impossibile allora non sentire nel corpo il corpo che ha raccontato quelle parole, la sua dimensione, la sua consistenza. Forse potrei parlare di tridimensionalità della testimonianza, di circolarità. Non devo più dare vita alla staticità delle immagini ma accogliere la consistenza dei corpi, passando anche attraverso la traduzione delle parole in corpo.
Sono ancora legata alla parola archivio e li ho chiamati archivi mnemonico-incarnati perché la memoria si deposita nella carne, la segna, la deforma. E allora accogliere quella memoria pur avendone una propria è il compito più difficile. Fino a che punto il mio segno coreografico lascia spazio ai modi di altri corpi? Come fare i conti con l’alterità, con le tante soggettività? Sono domande che si impongono in questa mia fase di ricerca, nella serie dei vari FABRICA che si stanno man mano generando. Domande a cui non so dare una risposta.
Ho come la sensazione che la parola archivio si addica a chi cede la propria testimonianza, a chi racconta del proprio corpo, a chi si espone nelle parole del proprio vissuto. La raccolta delle testimonianze è ancora archivio. Ma io che incarno e trasformo quelle parole, quei corpi, posso ancora dire che divento archivio di tutto ciò? Non sono forse contenitore, deposito, corpo depositario di archivi?”
*il testo è tratto da uno scritto di Paola Bianchi presente nella fanzine OSCILLAZIONI #2 Mettere mano agli archivi – a cura di Roberta Nicolai | Triangolo Scaleno Teatro / Teatri di Vetro